martedì 14 giugno 2022

La strage della Niccioleta


Le case di Niccioleta sono sparse su una collinetta posta di fianco alla strada che da Massa Marittima conduce a Castelnuovo Val di Cecina. Nel 1944 le carte topografiche non registravano il nome di questo villaggio sorto da pochi anni intorno alla miniera di pirite. Niccioleta allora era abitata da centocinquanta famiglie di minatori, oltre che dal personale direttivo della miniera.
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Ai primi di giugno, la ritirata tedesca era in pieno corso sulle strade della Maremma; il fascismo repubblichino era in sfacelo. Il presidio fascista di Massa tagliò la corda la notte del 9. Quello stesso giorno una squadra di partigiani era entrata in Niccioleta. Disarmati i carabinieri, che vennero invitati ad allontanarsi, i partigiani accompagnati da elementi del luogo fecero il giro delle case dei fascisti, sequestrando anche a loro le armi. Agli uomini fu ingiunto di non uscire di casa.
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Fin dal giorno 10, il CLN aveva istituito un servizio armato di avvistamento e di vigilanza, col pieno consenso del direttore della miniera. Si sapeva che i tedeschi lasciavano indietro gruppi di guastatori, con l’incarico di distruggere gli impianti industriali; e i minatori di Niccioleta erano decisi a salvare la miniera. Purtroppo questo sistema di sicurezza non funzionò, quando all’alba del 13 le SS comparvero a piedi sotto Niccioleta. Le sentinelle (una delle quali era per l’appunto il figlio del direttore Mori Ubaldini) non poterono far altro che darsi alla fuga. A loro volta i membri del comitato, che sedevano in permanenza nella caserma dei carabinieri, ebbero appena il tempo di nascondere le armi nel rifugio antiaereo. Vi nascosero anche gli elenchi dei turni di guardia, mentre avrebbero fatto bene a distruggerli.
Il paese si risvegliò bruscamente al rumore degli spari, delle voci rauche dei tedeschi (tedeschi erano il comandante, un tenente, e i sottufficiali; mentre i militi erano tutti italiani). Gli uomini furono fatti uscire dalle case, alle donne e ai ragazzi venne invece ingiunto di non uscire, e anzi di sprangare le finestre. Centocinquanta minatori si trovarono così ammassati nello spiazzo davanti al dopolavoro, e poi dentro il rifugio antiaereo. Naturalmente ai fascisti venne riservato un diverso trattamento; e se qualcuno fu dapprima incolonnato con gli altri, si provvide poi a liberarlo. Calabrò, Nucciotti, Bellini si erano subito uniti ai militi e li accompagnavano in giro. Gli elenchi delle guardie armate furono rinvenuti nel rifugio antiaereo insieme alle armi. Anche i dirigenti della miniera vennero prelevati e messi a disposizione del tenente tedesco. L’ingegnere Boeklin ebbe il compito di fare l’interprete. Ultimato il rastrellamento, il tenente si installò nella caserma dei carabinieri e procedette all’interrogatorio di alcuni minatori, che gli erano stati indicati come i capi del movimento antifascista. Alle dieci Sargentoni Ettore coi figli Ado e Alizzardo, Bruno Barabissi, Antimo Ghigi e Rinaldo Baffetti furono fucilati in una fossa che gira intorno all’edificio dello spaccio aziendale. Una donna che abitava lì davanti poté vedere la scena: «Vidi per primi Baffetti e Barabissi uscire dalla sede del dopolavoro a braccetto e avviarsi nello stretto corridoio che porta dietro al forno, seguiti da un milite armato. Appena essi furono dietro il forno sentii sparare dei colpi. La seconda coppia fu il Sargentoni Ettore e Ado sempre a braccetto e seguiti da un altro milite, ed entrati nel recinto udii altri colpi; per ultimi vidi venire Sargentoni Alizzardo e Ghigi con la stessa scena degli altri. Prima di arrivare dietro il forno, nello stretto corridoio il Sargentoni Alizzardo cadde a terra battendo la testa in uno spigolo. Il milite che lo accompagnava lo alzò prendendolo per un braccio e lo colpì alla testa col calcio del moschetto, spingendolo poi dietro il forno. Sul muro, dietro il forno, vi era una mitragliatrice coperta con delle frasche e intorno a essa dei militi, accanto vi era una damigiana di vino e durante tutto il tempo i militi riempivano un fiasco di vino e bevevano».
A mezzogiorno si permise alle donne di portare da mangiare agli uomini, che si trovavano sempre nell’interno del rifugio.
Fu solo verso sera che il tenente tedesco prese una decisione: i minatori furono fatti uscire dal rifugio e avviati a piedi verso Castelnuovo. Dopo alcuni chilometri arrivarono dei camion, e con quelli i prigionieri vennero portati a Castelnuovo e rinchiusi nella sala del cinematografo. Anche i dirigenti della miniera e i fascisti (questi ultimi con le famiglie e le masserizie) furono condotti a Castelnuovo e alloggiati nella caserma dei carabinieri. Durante l’intera giornata del 14, per le strade di Castelnuovo si ripeté il sinistro via vai del giorno prima. Come a Niccioleta, anche a Castelnuovo i fascisti accompagnavano le pattuglie dei militi, che facevano la spola tra il comando tedesco e il cinematografo dove erano rinchiusi i minatori. Sembra che il tenente aspettasse il comandante del battaglione, il quale non era in sede; ma poi finì con l’agire di propria iniziativa. I minatori furono divisi in tre gruppi. Il primo, composto di 79 uomini, era destinato allo sterminio. Il secondo, di 21, alla deportazione in Germania. Il terzo, di 50, comprendeva gli uomini più anziani, che avrebbero dovuto essere rilasciati. I 79 erano stati scelti in base ai nomi contenuti negli elenchi delle guardie armate. Quando non si era trovato il figlio, era stato incluso tra i condannati a morte il padre, e viceversa. I fascisti ebbero però la facoltà di rimaneggiare la lista, includendo o togliendo chi loro parve meglio. In particolare Calabrò, che i tedeschi chiamavano «il vecchio fascista», fu autorizzato dal tenente a liberare sei uomini. Egli ne liberò due, e così i 79 divennero 77. Poi finse di volerne liberare un terzo e chiamò fuori dalle file Eugenio Cicaloni. Cicaloni si fece avanti e Calabrò disse al tenente: «Questo avere sputato in faccia a mia moglie e a mia figlia». Il tenente con uno spintone lo rispedì in fila.
Al tramonto, i 77 furono condotti in una specie di dolina, in prossimità della centrale elettrica, e a gruppi di quindici falciati con le mitragliatrici. Le mitragliatrici erano manovrate dai militi italiani. Nella caserma dei carabinieri, udendo la sparatoria, la moglie del fascista Soppelsa non resse e si mise a piangere. Nucciotti la vide e disse: «Io non faccio una lacrima, questa volta l’hanno preso in culo loro!»
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L. Bianciardi, C. Cassola, I minatori della Maremma [1956], ristampato poi anche da StradeBianche/StampaAlternativa, Pitigliano, 2010 e pubblicato in forma NO COPYRIGHT; il file è scaricabile gratuitamente come PDF da QUESTA PAGINA

[Immagine: Copertina della prima edizione realizzata dal pittore grossetano Bruno Dominici] 

Nota: i riferimenti sono tutti a luoghi reali, fatti accaduti e persone esistite. Vedi anche: Strage di Niccioleta e I minatori della Maremma.

 

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