Al mio babbo la cosa era del tutto incomprensibile. Come poteva mai essere che fosse un lavoro quello che facevo pigiando dei tasti di un ingombrante oggetto grigio che aveva l'aspetto di un brutto televisore?
L'M20 dell'Olivetti me lo aveva visto portare a casa con notevole sforzo fisico (pesava da morire, ed io ero, pelle ed ossa comprese, poco più di sessanta chili per quasi un metro e ottanta); l'aveva visto sulla scrivania della mia cameretta e non aveva chiesto nulla: semplicemente non capiva. Per lui lavoro era, necessariamente, lavoro fisico: se non avevi una pala in mano, un piccone, almeno un martello e uno scalpello, se non sudavi, insomma, beh, quello non poteva essere un lavoro!
Sapeva bene che ero un bravo ragazzo, studioso e con una predilezione per i libri, avrei potuto fare, che so, il professore, l'ingegnere in una bella ditta di elettronica, ma invece cosa stavo facendo?
Spiegargli cosa fosse la 'programmazione' di un computer era troppo difficile: gli dissi che stavo realizzando delle 'cose' che permettevano all'Esattoria Comunale di riscuotere correttamente le tasse e di tenere i conti per il Comune e per il Ministero del Tesoro. Questo lo colpì: ci vuole del cervello per fare cose del genere, ma rimase perplesso. Poi aprii un mio conto corrente, cominciai a versarci dei soldi, ricevevo, a casa, telefonate di lavoro dall'Esattoria, dal villaggio svedese di Riva del Sole, da alcuni noti professionisti.
Cosa fosse la 'programmazione' ormai al mio babbo non importava molto, è rimasto per sempre un mistero per lui cosa fosse questo lavoro fatto in 'punta di dita', ma che dietro ci volesse una testa con un bel cervello, questo era un dato di fatto, una mente acuta e brillante come era la sua (e che io avevo ereditato...). Su una cosa concordavamo: i lavori si fanno con la testa, sempre, tutti.
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