Non ricordo che le mie estati di bambino fossero particolarmente calde; a casa non avevamo sicuramente neanche un ventilatore e quelle giornate di vacanze erano tutte o al mare o in pineta o a giocare per strada.
Non c'erano neppure molti gelati, nelle mie estati ma almeno un paio di volte alla settimana c'era il ghiacciolo.
All'ora di merenda andavo da solo a comprarlo, a pochi isolati da casa, al bar dell'Albergo Minerva, in via Bicocchi, proprio accanto alla casa dove ero nato. Il barista mi metteva un po' soggezione: vestito di bianco, molto formale; spesso non era nel bar e mi toccava aspettarlo; ne approfittavo per dare un'occhiata all'interno della sala da pranzo dell'albergo, che si apriva, di fronte alla porta dell'ingresso, sul fondo del bar: mi sembrava enorme, le luci accese, già tutta pronta e in ordine per l'ora di cena.
Di solito compravo, come dicevo, un ghiacciolo. Il barista, aprendo l'enorme frigo a pozzo, mi faceva scegliere il gusto: era arancio o amarena, qualche volta menta. Pagavo le mie quindici, forse venti lire e tornavo piano piano a casa, la bocca colorata e fredda.
In realtà avrei voluto comprarmi un ghiacciolo 'Arlecchino', di quelli a strisce colorate di cinque o sei gusti, ma costava il doppio di un ghiacciolo comune e solo qualche rara volta avevo monetine sufficienti. In quei casi era una festa: invece di gustare il ghiaccio del solito monotono sapore, mi divertivo a succhiare via con le labbra, aspirando forte, lo sciroppo verde, magenta o giallo, lasciando quasi intatto il ghiacciolo che, rimasto completamente decolorato e insapore, mangiavo alla fine a grandi morsi.
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