«Deve esser un bel film!», dicevo a mia nonna col tono di voce più suadente che avevo, non appena l'immagine dell'annunciatrice era svanita dallo schermo del televisore per far posto alla sigla della Twenty Century Fox.
La musichetta ci era nota e poteva costituire la garanzia di uno spettacolo piacevole: io avevo bisogno che lei condividesse il mio ottimismo perché non mi piaceva stare a guardare un film da solo: ero appena un bimbetto di sette od otto anni e avevo paura a rimanere di notte in cucina senza nessuno che mi facesse compagnia e probabilmente non me lo avrebbero neppure permesso. I miei genitori a quell'ora, le otto e mezzo della sera da poco passate, erano già a letto e mio nonno li aveva addirittura preceduti: chi lavora fisicamente ha bisogno di riposare bene e a lungo perché il sole si alza presto e la giornata di fatica inizia all'alba.
Guardavo la nonna implorante, speravo che, invece di prendere la porta e di ordinarmi di andare a letto, si fermasse qualche manciata di secondi in piedi, a vedere le prime scene del film; se si metteva a sedere era fatta: correvo ad accendere la lucetta sopra il televisore, lei spengeva la luce principale della stanza e poi, se eravamo d'inverno, dopo aver dato un'occhiata alla stufa economica e aver controllato che avessimo abbastanza legna per quell'ora e mezzo che saremmo stati lì, inforcava gli occhiali e si sedeva al tavolo di cucina; io, poco lontano da lei, ero già perso nei bagliori dei racconti che il magico scatolone ci portava a casa: storie di indiani e di cowboy, di bravi giovanotti o di sfortunate ragazze, di ladri o di assassini combattuti da poliziotti integerrimi.